Atti del Convegno “Il sacrificio della Divisione Acqui”
Si pubblicano qui gli atti del convegno dal titolo “Il sacrificio della divisione Acqui”, tenutosi a Milano il 20 settembre del 2000, presso la sede storica del Piccolo Teatro.
La manifestazione è stata organizzata dalla Confederazione italiana tra le associazioni combattentistiche e partigiane.
Telegramma di Sergio Mattarella
Ministro della Difesa.
Impossibilitato intervenire causa inderogabili impegni di governo, mi è gradito rivolgere a lei e a tutti i presenti, il saluto del governo e delle Forze Armate e l’apprezzamento più sincero per un’iniziativa che intende ricordare e rendere omaggio agli Eroi e ai Martiri di Cefalonia, che rappresenta una delle pagine più drammatiche ed esaltanti della storia Patria e chiara testimonianza dell’impegno e del sacrificio delle nostre Forze Armate per l’affermazione dei più alti valori di libertà, democrazia e giustizia. Ai Caduti di Cefalonia, a tutti i Caduti della guerra di liberazione e della resistenza, rinnovo il pensiero commosso e la gratitudine del paese per una prova di coraggio che resterà esempio per tutte le generazioni. Ai reduci, protagonisti e custodi di così nobili testimonianze di valore, un saluto affettuoso e grato.
Intervento di Gabriele Albertini
Sindaco di Milano
“Prima di tutto in ginocchio e in preghiera, con padre Formato. Poi diritti, in piedi e sicuri, a testa alta, di fronte ai mitra: il capitano Clerici cantando la ‘Canzone del Piave’, il capitano Guasco salutando sull’attenti, da carabiniere, il colonnello Romagnoli… L’eccidio di Cefalonia è tutto qui, nel suo orrore e nel suo splendore. Noi lo ricordiamo con commozione profonda non per l’odio che ne determinò l’orrore. L’odio va dimenticato e non deve più risorgere perché avvelena le anime e ne inaridisce i cuori, perché è stato dimenticato e non ritornerà di certo”.
Non sono parole mie. Le ho trovate in un libricino custodito alla Sormani, assieme ad altri che ho scorso in questi giorni. Un diario del cappellano, padre Romualdo Formato, un altro di Don Luigi Ghilardini, anche lui cappellano; una relazione del 1945 redatta per conto dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito; e appunto quella testimonianza, rivissuta da un deputato democristiano che, assieme ad altri, alla Camera commemorava l’eccidio, dieci o quindici anni dopo.
Le ho ricordate perché – parole coraggiose allora, nell’immediatezza del dolore – possono accompagnare anche questa celebrazione, 57 anni dopo quella tragica pagina della nostra storia. Sono particolarmente orgoglioso che questa cerimonia venga quest’anno a Milano, per raggiungere infine il luogo dell’eccidio. Di questa scelta voglio ringraziare gli organizzatori. Dalla memoria del sacrificio degli uomini della Divisione “Acqui”, e delle condizioni in cui quel sacrificio maturò, noi possiamo infatti trarre il significato del nostro essere cittadini, responsabili e non sudditi delle istituzioni.
L’8 settembre 1943 fu il giorno in cui lo Stato perse la sua dignità, ed incredibilmente anche il giorno da cui cominciò a riprendersela. Cefalonia, e gli uomini i Cefalonia, sublimarono nel martirio ciò che per il Paese sarebbe stato il faticoso viaggio della seconda metà del secolo: lo sbandamento e infine il riscatto.
Non credo di sottrarre nulla alla gloria di quegli eroi se penso che il loro non fu solo un atto eroico, fu soprattutto un atto di coerenza e di lealtà fino all’eroismo.
L’8 settembre la radio annunzia l’armistizio. Si crede alla pace, al ritorno in Patria, alle famiglie. Non fu così.
A Cefalonia la speranza finì, una manciata di giorni dopo, sotto tre metri di terra. Gli ex alleati tedeschi divenuti nemici si vendicarono sui nostri.
“Fra le stragi di vite umane degli ultimi anni – annotò un ufficiale dell’Esercito – questa ha un suo particolare aspetto perché qui, a Cefalonia, furono soldati, cioè uomini organizzati sulle leggi dell’onore, che premeditatamente uccisero, dopo la resa, inermi soldati.”
Nella parabola finale degli uomini del generale Gandin, il comandante della Divisione l’Acqui, c’è il senso stesso dell’umanità: la gioia ma anche il rigore, la voglia egli affetti ma anche la consapevolezza che ogni vita vale non per quanto dura ma, per quanto sa dare. Le tre proposte del comandante del Presidio, il colonnello Hans Barge – continuare la guerra con i tedeschi; contro i tedeschi; o arrendersi – sembravano indicare quasi banalmente le sole possibilità offerte dalla situazione.
Gli uomini della “Acqui” restarono semplicemente fedeli alla loro divisa. “Morirono – ha scritto uno dei cappellani, don Luigi – in nome dell’onore e della Patria, consapevoli di tener fede alle leggi di questi supremi ideali di uomini che, in determinate circostanze, possono essere leggi di morte”.
L’eccidio della “casetta rossa”, gli ufficiali italiani che vanno alla morte in fila, il ricordo di un altro cappellano, padre Romualdo Formato, che lasciò scritto: “Chi può scandagliare la profondità dell’angoscia e della pena che soffrì il mio animo nell’abbracciare e nel baciare ciascuno di essi mentre si avvicendavano, a piccoli gruppi, per ore e ore, al crudele supplizio?”.
Tutto questo non fa parte solo della nostra memoria collettiva, è riflessione per l’oggi. I cittadini che restano Stato anche quando lo Stato non c’è o non c’è più.
È il senso dell’onore e del dovere, che sembra uguale nei soldati tedeschi che eseguono l’ordine di Hitler e in quelli italiani che di ordini non ne hanno più, o ne hanno troppi. Ma che uguali non sono.
Al processo di Norimberga, il maresciallo Keitel dichiarava: “È tragico dover ammettere che il meglio che, come soldato, avevo da offrire, e cioè l’obbedienza e la fedeltà, sia stato così malamente usato. Come è tragico non aver capito che ci sono dei limiti anche nell’adempimento del proprio dovere”.
I novemila caduti di Cefalonia ed i pochi sopravvissuti hanno risposto ad un ordine che proveniva dal loro animo. Non sono eroi della mitologia bellica. Hanno sacrificato se stessi per coerenza con la propria vita, sono andati incontro alle pallottole perché la ritenevano l’unica soluzione onorevole. Anche se la battaglia fu spaventosa e feroce, non restano i rumori delle armi, ma quello sommesso delle coscienze. Come accadde in privato all’avvocato Ambrosoli, che accettò la sfida con i killer di Sindona, i soldati di Cefalonia hanno fatto fino in fondo, fino al sacrificio, fino all’eroismo i1 loro dovere.
La solenne cerimonia di oggi vuole avere questo significato: ricordare i soldati italiani caduti è un modo per ricordare a tutti noi l’esempio di civiltà che essi hanno saputo dare, anticipando l’eticità e moralità dello Stato che restano nelle nostre aspirazioni, anche se non sempre realizzate.
Onorare quei caduti significa onorare l’Italia che vogliamo. E significa costruirla e rinsaldarla, ogni giorno, con l’eroismo silenzioso dei tanti che vivono il proprio dovere, mantengono il senso dell’onore e amano la loro Patria.
Intervento di Gerardo Agostini
Presidente nazionale della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e partigiane.
Proprio in questi giorni, potremmo dire in queste ore, cinquantasette anni fa, nell’isola di Cefalonia si consumava il sacrificio della Divisione Acqui. A distanza di tanti anni siamo qui per ricordare quella tragedia e trarne ancora una volta insegnamento. Non tanto per noi, ormai anziani, ma soprattutto per i giovani, per le nuove generazioni che troppo spesso non conoscono, perché nessuno glielo ha insegnato, quanti sacrifici è costata la conquista della libertà e delle istituzioni democratiche.
Il mondo combattentistico ha memoria lunga: oggi vuole riportare alla mente degli immemori, e insegnare ai giovani che la ignorano, una pagina gloriosa della nostra storia, scritta con il sangue di soldati al servizio dell’Italia. E non basta: il 28 settembre saremo a Cefalonia con una delegazione di parlamentari appartenenti a tutti gli schieramenti politici. Deporremo una corona d’alloro al cippo che ricorda i caduti della Acqui. Un gesto significativo che conferma la volontà di tutti gli italiani di superare ogni lacerazione, a oltre 50 anni dalla fine dei conflitto, rendendo onore a quanti immolarono la vita per la Patria.
Quello della Divisione Acqui è uno dei primi episodi di resistenza organizzata e uno dei pochi che ha visto protagonista una grande unità delle Forze Armate italiane contro l’esercito nazista, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Mai un così elevato numero di uomini, alcuni dei quali – voglio sottolinearlo – giovanissimi, scelsero in piena coscienza la via dei supremo sacrificio.
Undicimilacinquecento soldati insieme con i loro ufficiali decisero liberamente di affrontare un combattimento impari, contro un nemico feroce, preponderante per uomini e mezzi.
Fra il 13 e il 28 settembre 1943 si compie l’eccidio dell’intera divisione che presidia le isole di Cefalonia e Corfù, di alto valore strategico a causa della loro posizione geografica. Con appassionate rievocazioni lo hanno ricordato in questi lunghi anni i superstiti di quella tragedia: padre Formato, Lorenzo Apollonio, Amos Pampaloni. Memorie viventi di quei giorni terribili.
L’8 settembre 35 divisioni italiane si trovano fuori dei territorio nazionale, impegnate nell’occupazione dei Balcani e delle isole dell’Egeo. Lasciati all’oscuro dell’evolversi della situazione, i comandanti apprendono dell’armistizio ascoltando la radio. Inquadrata nell’Undicesima Armata operante in Grecia, la Divisione Acqui è agli ordini dei generale Antonio Gandin, insignito dell’Ordine Militare di Savoia, ben conosciuto dai tedeschi che lo avevano a loro volta decorato e indicato come possibile comandante delle forze dell’Asse nei Balcani. Nessuna comunicazione gli giunge da Roma. Gandin riceve un radiogramma dei generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell’Undicesima Armata con l’ordine di non assumere iniziative contro i tedeschi, ma di reagire a eventuali aggressioni, in linea con le direttive emanate dal governo Badoglio, di per sé alquanto nebulose.
Il giorno dopo, 9 settembre, Vecchiarelli, che i tedeschi considerano “un buon amico”, sottoscrive con loro un accordo e dispone la sostituzione dei reparti italiani con forze germaniche alle quali dovranno essere consegnate le armi collettive, le artiglierie e le rispettive munizioni.
La contraddittorietà degli ordini ricevuti e il totale stato di insicurezza in cui si sarebbero trovate le sue truppe, consegnando le armi, spingono Gandin a intavolare una trattativa con il comandante tedesco, il tenente colonnello Hansen Barge.
Tre le alternative:
– consegnare le armi, subito scartata perché, come visto, avrebbe significato la resa incondizionata e la perdita di ogni onorabilità, anche nei confronti della generosa popolazione di Cefalonia;
– combattere a fianco dei tedeschi, altrettanto improponibile, dati gli ordini dei governo, conseguenti alla firma dell’armistizio;
– combattere contro i tedeschi, eseguendo il dettato dei proclama di Badoglio che parla di reazione “eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
Gandin prende tempo, diluisce per quanto è possibile i colloqui con Barge, tenta di mettersi in contatto con un comando superiore diverso da quello dell’Undicesima Armata, raccoglie informazioni per valutare la situazione, alla ricerca di una soluzione onorevole per non cedere le armi e salvare la vita degli uomini affidati al suo comando.
Fra i fanti e gli ufficiali della Acqui intanto serpeggia l’ostilità verso l’ex alleato, a causa delle prepotenze e delle sopraffazioni di cui è protagonista.
La situazione si deteriora con il trascorrere delle ore. Il generale Gandin è informato dei progressivo rafforzamento dei contingente germanico con uomini e mezzi. Il 13 settembre il colonnello Barge pone l’ultimatum: consegna delle armi entro 24 ore.
Bisogna decidere e in fretta. Fra gli uomini della Acqui c’è insofferenza per la mancata ferma risposta all’ultimatum tedesco. Il generale Gandin recepisce i sentimenti delle sue truppe e la mattina dei 14 settembre accade un fatto senza precedenti nella storia militare: ufficiali, sottufficiali e soldati sono chiamati a pronunciarsi sulla condotta delle operazioni belliche e di conseguenza a scegliere il proprio destino. La memoria dei sopravvissuti ci ha tramandato l’esito di questa libera votazione su un quesito decisivo: arrendersi o combattere contro i tedeschi. Da tutti i reparti l’indicazione è univoca, determinata: “Contro i tedeschi”.
E proprio allora, da Brindisi, arriva il messaggio dei Comando Supremo: “Resistere con le armi all’intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia, Corfù e altre isole”.
Immediata e violentissima la reazione nazista. Senza aspettare la scadenza dell’ultimatum, il comando tedesco fa bombardare le nostre linee. Le conseguenze sono disastrose: centinaia di vittime e lo sconvolgimento dei piano d’attacco elaborato da Gandin e dai suoi più stretti collaboratori.
Privi di appoggio aeronavale, inferiori per uomini e mezzi, con il solo supporto di tre batterie costiere della Marina e il rinforzo di un reparto della Guardia di Finanza, gli uomini della Divisione Acqui tengono testa al nemico per sette giorni, combattendo con la consapevolezza che il trascorrere dei tempo non gioca a loro favore, e le possibilità di vittoria si riducono di minuto in minuto.
Ogni progresso però comporta per le truppe naziste perdite altissime. Allora, dove non prevalgono le armi, il comando germanico tenta con le pressioni psicologiche, nella speranza di provocare defezioni nei reparti: volantini con la promessa di un immediato ritorno in Patria per quanti si arrenderanno spontaneamente sono lanciati sulle linee italiane. Non trovano risposta.
Gli scontri sono già costati alla Acqui oltre duemila caduti, quando la mattina dei 22 settembre il generale Gandin decide di accettare la resa senza condizioni. Un atto che significa cessazione delle ostilità, ma anche garanzie precise nei confronti dei prigionieri, dei feriti e dei malati inermi, dei personale sanitario, medici e infermieri.
Gli ordini trasmessi da Berlino sono espliciti: fucilare chiunque avesse resistito. In 48 ore i reparti tedeschi, con inaudita ferocia, passano per le armi oltre 5.000 uomini. E poiché gli ufficiali sono stati i principali animatori della resistenza, radunano 265 superstiti alla “Casetta Rossa” e li falciano a raffiche di mitragliatrice a Capo San Teodoro. Primo a cadere è il generale Antonio Gandin, al quale sarà poi concessa la Medaglia d’Oro alla memoria.
Gli scampati alle fucilazioni vengono imbarcati su navi tedesche per essere inviati nei lager. Una volta al largo, i sommergibili alleati colpiscono con i siluri le navi nemiche con a bordo i prigionieri. E aerei alleati, destino beffardo, mitragliano a volo radente i naufraghi.
Caduta Cefalonia, è investita Corfù, presidiata da altri reparti della Acqui, comandati dal colonnello Luigi Lusignani. Due giorni di combattimenti, poi la resa e nuovi massacri nuove fucilazioni, Lusignani in testa.
Fin qui la storia, i fatti, secondo verità, così come testimoniano i superstiti della Acqui, la popolazione di Cefalonia che li aiutò, gli stessi rapporti inviati a Berlino dai massacratori tedeschi.
Con l’aggiunta di una riflessione. Cefalonia racchiude e anticipa l’intera stagione della Resistenza contro il nazismo: dal rifiuto della collaborazione con i tedeschi alla lotta partigiana, alla ricostituzione dell’Esercito italiano che affiancherà gli Alleati da Mignano Montelungo alla Liberazione. Anticipa la ritrovata capacità di decidere con la partecipazione di tutti, la libertà di scegliere il proprio destino con la consapevolezza dei sacrificio da affrontare.
E dopo Cefalonia altri massacri per rappresaglia devasteranno l’Italia: Boves, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, solo per ricordarne alcuni. Un prezzo altissimo, pagato da uomini coraggiosi e dalle popolazioni che parteciparono alla lotta. Il prezzo del riscatto morale e civile per realizzare la Repubblica, istituzioni libere e democratiche, capaci di assicurare una lunga stagione di pace alle nuove generazioni.
Un esempio che abbiamo il dovere di tramandare e insegnare ai giovani, con tutti mezzi, a partire dalle scuole, affinché Cefalonia non sia più dimenticata e non debba più ripetersi.
Intervento di Tino Casali
Vice presidente nazionale dell’ANPI.
Mi associo al presidente Marco Pazzini che ha aperto i lavori di questa assemblea, ed esprimo a nome del presidente nazionale della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane, promotrice di questo incontro sen. Gerardo Agostini, e di Alfredo Cascone, presidente del Comitato milanese, un sentito ringraziamento alle autorità civili e militari che hanno voluto sottolineare con la loro presenza una doverosa riconoscenza ai caduti della Divisione Acqui, protagonisti di una pagina di storia nella gloriosa e tragica vicenda che nel settembre 1943 vide l’eroica resistenza dei soldati italiani alle forze armate tedesche.
Il nostro saluto commosso va ai sopravvissuti e ai familiari dei caduti.
Ai sindaci che hanno voluto essere presenti con i loro gonfaloni decorati al V.M. che simboleggiano le gesta eroiche e il sacrificio anche della vita dei loro concittadini per una Italia libera e democratica e per il riscatto della nazione dopo la lunga notte del fascismo.
Il nostro saluto al prefetto Bruno Ferrante, al sindaco Gabriele Albertini, al generale Luciano Forlani comandante del presidio militare, al questore Giovanni Finazzo, all’assessore Regionale preposto alla Cultura Ettore Albertoni, al presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, alle M.O. al V.M. Vincenzo Capelli, gen. Alberto Li Gobbi e Giovanni Pesce; a tutti coloro che hanno voluto sottolineare con la partecipazione dei medaglieri, dei labari e delle bandiere delle associazioni combattentistiche e d’arma, delle associazioni dei partigiani e dei deportati, la loro significativa presenza.
Ci ritroviamo oggi per rendere omaggio alla memoria dei combattenti di Cefalonia e per ricordare agli immemori che alla data dell’8 settembre 1943 le truppe italiane occupavano parte della Francia, la Jugoslavia, l’Albania, la Grecia, le Isole dell’Egeo e la Corsica. Era questo l’immenso arco lungo il quale era disseminato l’esercito italiano nel momento più tragico della nostra storia nazionale, in un intricato groviglio di avvenimenti, quando, venuta meno una direttiva generale di difesa, si svolse il dramma delle nostre Forze Armate all’estero, prese avvio la Resistenza e diverse unità italiane attaccarono e si batterono anche per riabilitare il nome dell’Italia dinanzi agli occhi degli altri popoli.
È pur vero che in diverse località vi fu la resistenza disperatamente chiusa in se stessa, senza possibilità di sviluppo, che lasciò solo l’eredità del sacrificio, ma vi fu anche quella destinata a prolungarsi nel tempo, ossia vi fu il susseguirsi su una scacchiera così vasta di situazioni diverse, di fatti, che costituirono le radici della identità della nazione italiana e della coscienza democratica che si andava sempre più risvegliando.
Chi ha vissuto o conosce quelle pagine di storia sa che vi furono anche eventi che portarono i militari italiani ad unirsi e ad essere inquadrati nelle formazioni partigiane dei diversi paesi, sconfiggendo lo smarrimento, ritrovando la fierezza della loro italianità, divenendo, da reparti di occupazione, combattenti della libertà ed ambasciatori di pace.
Il prezzo pagato fu proporzionato alla nobiltà dell’impresa: oltre 35.000 soldati italiani, volontari per la libertà dei popoli, caddero sul campo.
Quei nostri morti restituirono onore e dignità al nome dell’Italia all’estero e coloro che sopravvissero agli aspri combattimenti delle prime settimane successive all’armistizio, alle orrende stragi e alle deportazioni, presero in mano la bandiera della libertà e continuarono fino in fondo la lotta. Ciò avveniva mentre entro i confini nazionali, militari e operai, studenti e intellettuali, sceglievano la strada della lotta e della montagna, ed altri si organizzavano nelle città ove si costituivano i primi nuclei di gappisti e sappisti.
Ed ancora vi fu la vicenda dei 600.000 internati militari nei lager tedeschi. Forse il termine “internato” non suggerisce alle giovani generazioni particolari immagini di valore. Vi è chi lo vede come una specie di limbo, pallido e squallido, e non riesce a capire quali meriti possa rivendicare dalla storia. Ma è sufficiente ricostruire gli accadimenti, le umiliazioni subite dai militari che, trovatisi sbandati, furono catturati dai tedeschi, avviati alla deportazione ove conobbero il dramma dell’internamento nei lager, senza poter avere, per il loro status, la possibilità di invocare l’applicazione delle garanzie giuridiche internazionali.
Si deve conoscere il dramma degli internati, come affrontarono le condizioni di vita più avvilenti per un essere umano, come e quali sacrifici sopportarono nei lager ove oltre 50.000 italiani lasciarono la loro giovane vita. Vi furono le Unità italiane del risorto esercito che dalla disperata e sanguinosa battaglia di Montelungo alla Linea Gotica, avanzarono, combattendo verso il Po e le città del Centro-Nord. Erano il simbolo dell’Italia che risorgeva con il suo popolo, con le sue nuove e diplomatiche Istituzioni, era la testimonianza che la libertà non veniva regalata ma conquistata con grande sacrificio dai suoi combattenti per la Libertà e dai giovani soldati del rinato esercito italiano.
Avanzavano combattendo e con il Tricolore levato, ripulito dall’onta e dalla vergogna del fascismo, a dimostrazione anche per gli alleati che la libertà non ci veniva regalata ma conquistata con enorme sacrificio di sangue.
È in ispecie nella tragica vicenda della Divisione Acqui che si ritrova sintetizzato il dramma dei militari italiani dislocati all’estero nel momento dell’armistizio, d è questo il motivo e la ragione per cui siamo qui riuniti. Ciò in quanto quello di Cefalonia fu un episodio che si staccò da ogni altro per il profondo significato, che ebbe la straordinaria volontà di rivolta che contemporaneamente infiammò l’animo di migliaia di uomini e che fu tanto forte da avere ragione d’ogni elementare istinto di conservazione.
Un eroico furore dominò tutta l’epopea di Cefalonia ed elevò il sacrificio della Divisione Acqui sul piano della leggenda. Ma sarebbe davvero sbagliato fare di questa storia scritta da una Divisione di soldati un fatto puramente passionale, come alcune volte si è tentato di fare. Io ritengo che proprio dalla epopea di Cefalonia emerga che sempre, ma in specie in guerra, il soldato è solo in parte quello che i regolamenti e l’addestramento vorrebbero: sotto la divisa rimane l’uomo che con la sua infinita problematica ed insopprimibili aspirazioni, con le sue grandi o piccole idealità.
È certo che, al di là di ogni meschina speculazione, Cefalonia rimane l’episodio più tragico e più fulgido di tutta la Resistenza italiana all’estero, e testimoniò all’Italia e al mondo la volontà di riscossa che animava i nostri soldati. A Cefalonia morirono 9.000 soldati italiani e le loro ossa furono abbandonate insepolte nell’isola perché, come si espresse all’epoca il comando della Wermacht: “I ribelli italiani non meritano sepoltura”. Sarà solo la pietà dei greci che, più tardi, radunerà quelle spoglie in primitivi tumuli.
Ed allora abbiamo tutti il dovere, al di là di ogni calcolo o furbizia politica, di ogni convenienza e opportunità, identificata anche nella Realpolitik, come purtroppo è avvenuto, di attuare le necessarie iniziative affinché i caduti della Divisione Acqui ed i superstiti abbiano sotto ogni aspetto la giusta e imperitura gratitudine e l’omaggio della nazione e degli italiani.
Nel concludere vorrei rivolgermi alle giovani generazioni ed in ispecie ai giovani militari, per dire loro che non è cosa meschina ma alta e nobile tramandare gli accadimenti che investono la storia patria ed impedire così che la memoria collettiva vada dispersa nel deserto della storia ove, per alcuni, ogni cosa è piatta e uniforme, è uguale all’altra, ossia una cosa vale l’altra.
Invece no, sappiamo che la storia è fatta di tanti momenti che non hanno lo stesso peso e la stessa natura, e sappiamo che la storia non può e non deve essere assoggettata agli interessi politici di un particolare momento. Così come deve essere rintracciata nella memoria e nella coscienza collettiva la matrice dolorosa e drammatica, ma anche eroica e luminosa della Resistenza e delle istituzioni democratiche dell’Italia.
Intervento di Alfredo Cascone
Presidente del comitato milanese della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e partigiane.
Innanzitutto desidero portare il mio più riverente saluto alla Medaglia d’oro al V.M. Vincenzo Capelli, alla Medaglia d’oro al V.M. Alberto Li Gobbi, alla Medaglia d’oro al V.M. Giovanni Pesce; grazie per essere qui con noi. Mi è particolarmente gradito il compito di portare a voi il mio riconoscente grazie anche a nome di tutta la presidenza della Confederazione milanese per la vostra sensibilità verso una sciagurata pagina della nostra storia, quella dell’eccidio dei componenti la Divisione Acqui.
Il mio omaggio e la mia gratitudine vanno in modo particolare ai reduci ed ai familiari di quella triste pagina della storia del nostro esercito che sono qui presenti, con la preghiera che essi portino i nostri sentimenti di infinita solidarietà a tutti i loro commilitoni ed in particolare domani al raduno di Verona alla presenza del nostro presidente della Repubblica.
Sono in serie difficoltà ed è con infinita commozione che mi trovo ad affrontare un argomento tanto delicato come il ricordo dei nostri caduti assassinati, solamente per vendetta, nell’isola di Cefalonia nel settembre del 1943.
57 anni fa si è compiuto il peggiore atto barbarico che un esercito invasore, senza onore, possa compiere. Se ancora si vuol sottolineare il senso della barbaria tedesca, il suo comando proibiva la sepoltura dei nostri soldati fucilati perché “i ribelli non hanno diritto alla sepoltura”.
Va ricordato che il contingente italiano si aggirava su 11.500 fra sottufficiali e truppe, con 525 ufficiali. Il gen.Gandin comandava la Divisione Acqui e il ten.col. Barge il contingente tedesco.
Le contraddizioni degli ordini del gen. Vecchiarelli destarono serie perplessità nel Gen.Gandin. Il giorno 10 Settembre si presentava al comando di divisione il ten.col.Barge e chiedeva l’immediata cessione delle armi, comprese quelle individuali, imponendo il termine massimo: le ore 10 dell’11 settembre.
Con arroganza degna del peggior nazista impose che la consegna delle armi comprese quelle personali, avvenisse nella Piazza principale di Argostogli alla presenza della popolazione.
Ricordo a tutti voi questo vile metodo di umiliare il nostro esercito perché questo atto determinò la strage. Infatti dopo tristi vicissitudini il gen. Gandin prese la decisione, per la prima volta negli eserciti italiani, di invitare le truppe ad esprimere il proprio parere sui seguenti 3 punti prima di procedere di fronte a Dio e gli uomini:
1- contro i tedeschi
2- insieme ai tedeschi
3- cessione delle armi.
La risposta è stata plebiscitaria: contro i tedeschi.
Dello stesso parere erano la maggior parte dei giovani ufficiali. I tedeschi, infrangendo lo “status quo” conseguente alle trattative in corso, attuarono numerosi spostamenti di truppe facendo altresì affluire rinforzi dal continente. Ma la Acqui era ben decisa a non lasciarsi sopraffare. A rafforzare questa situazione contribuiva la solidarietà del popolo greco che si univa spiritualmente al soldato italiano, compreso gli ufficiali dell’esercito popolare greco di liberazione che operava sulle montagne i quali si presentavano ai nostri comandi chiedendo armi e offrendo generosamente la loro collaborazione.
A confermare il risultato del plebiscito giunse il cifrato a firma del gen. Francesco Rossi che ordinava di resistere alle richieste tedesche. Alle ore 12 il comando di Divisione consegna in Argostoli al comando tedesco il seguente messaggio: “La Divisione Acqui non cede le armi”.
La battaglia impari per forza e mezzi durò dalle ore 14 del 15 settembre alle ore 16 del 21 settembre.
Amici, da qui comincia l’odissea della Divisione Acqui.
La sera del 21 settembre e l’alba del 22 l’intera Divisione veniva decimata e il gen. Gandin convocò per l’ultima volta il Consiglio di Guerra, il quale decise di richiedere la resa senza condizioni.
La riunione per la resa durava circa due ore, quindi gli ufficiali del comando divisione deposero sul tavolo le loro pistole di ordinanza diventando da quel momento prigionieri di guerra. Nonostante la bandiera bianca di resa issata sul comando tattico, non finiva la fucilazione dei reparti che deponevano le armi.
Alle ore 16 del 22 settembre la battaglia di Cefalonia era finita, ma le fucilazioni continuavano per tutta la giornata del 23 settembre durante i rastrellamenti effettuati dai tedeschi. Dopo le esecuzioni sommarie in massa sul campo di battaglia nel corso delle quali avevano incontrato la morte 155 ufficiali e 4.750 uomini di truppa, sembrava che l’impeto di bestiale ferocia sanguinaria fosse giunto al suo epilogo. Purtroppo invece tra il 23 e il 28 settembre i tedeschi massacrarono altri 5.000 uomini di truppa e 129 ufficiali, compreso il gen.Gandin. I rimanenti 163 ufficiali accantonati presso la palazzina dell’ex comando Marina e all’ex caserma Mussolini venivano caricati su autocarrette e trasferite a punto San Teodoro nella famigerata casetta rossa e dopo un sommario processo venivano avviati al supplizio a 4 per volta.
Compiuto l’orrendo crimine bisognava far scomparire le tracce: ad eccezione di alcune salme lasciate insepolte gettate in cisterne artificiali, la maggior parte vengono bruciate in una fossa comune e i resti buttati in mare.
Secondo i più recenti accertamenti le perdite complessive della divisione Acqui e della Marina ammontano a 390 ufficiali su 525 e a 9.500 uomini di truppa su 11.500.
Pertanto gli scampati, cioè i superstiti, erano 135 ufficiali e circa 2000 uomini di truppa, la maggior parte deportati in Germania e poi in Russia da dove una parte non è più tornata.
A ricordo della Divisione Acqui è stato eretto un monumento a Cefalonia, città nella quale il 21 settembre di ogni anno viene commemorato l’eccidio alla presenza di autorità militari. Il giorno 28 di questo mese con una delegazione porteremo una corona d’alloro e ci inchineremo al monumento che rappresenta tutti i martiri.
Di fronte a questo orrendo delitto perperato dai servi di Hitler viene spontanea una riflessione: ma i responsabili di questo eccidio sono stati puniti?
Sin dal 1956 furono individuati dal P.M. militare i 30 ufficiali tedeschi ai quali ricadeva la responsabilità del massacro. Ebbene ragioni di politica estera consigliarono al nostro governo di allora di soprassedere alle richieste di estradizione delle 30 belve assassine.
Non voglio entrare nelle ragioni di opportunità di questo comportamento, sta di fatto che 9.890 nostri compatrioti sono stati barbaramente assassinati senza che i loro carnefici abbiano subito la giusta punizione.
La vicenda assume un enorme significato morale. Cosa potrebbero pensare i nostri figli, i nostri nipoti di fronte alla possibilità di dovere ubbidire al richiamo della Patria se questa Patria poi, per opportunità politica, non ti protegge e non punisce chi si macchia di orrendi delitti come quello di Cefalonia?
Sono assolutamente convinto che il governo di allora abbia agito per la pacificazione dei popoli, e per ragioni superiori. Evidentemente il momento non concedeva altra possibilità, ma ricordiamoci che gli Ebrei sono tuttora alla caccia dei carnefici nazisti, mentre i nostri 9.890 compagni di guerra assassinati sono tuttora in attesa che giustizia sia fatta. Inchiniamoci quindi di fronte a questi nostri eroi che dopo aver scelto spontaneamente da che parte stare e aver rifiutato, sempre spontaneamente, di non cedere le armi con disonore hanno dato dignità al nostro Paese sacrificando la loro vita.
Ebbene di fronte a questa infinita commozione io mi inchino verso questi nostri eroi caduti in nome della Patria, che non hanno avuto giustizia. Cerchiamo di ricordarli almeno noi che la guerra l’abbiamo fatta perché qualcuno ce l’ha imposta.
Intervento di Amos Pampaloni-Div. Acqui
Combattente di Cefalonia
Prima di tutto rivolgo un pensiero commosso ai caduti della Divisione di Fanteria da montagna Acqui, i quali, costretti da un governo dittatoriale alleato dei nazisti a combattere per oltre tre anni contro popoli che per cultura e tradizione erano amici, non vollero per spirito patriottico cedere le armi ai tedeschi e furono i primi eroi combattenti per la libertà, dando inizio alla Resistenza italiana.
La responsabilità delle stragi di Cefalonia e Corfù ordinate da Hitler, sono dei comandi militari alleati e del governo Badoglio. Infatti l’articolo 8 delle dodici condizioni dell’armistizio dettate dal generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze armate alleate, imponeva al governo italiano di richiamare in Italia tutte le Forze armate italiane in qualunque zona in cui si trovavano. Inoltre il generale Smith, capo di Stato Maggiore delle Forze armate nel Mediterraneo, affermò che le truppe italiane dislocate nei Balcani potevano essere trasportate in Italia anche con mezzi navali alleati, e reso noto il generale Smith che il presidente Roosevelt e il ministro Churchill avevano redatto un importante documento allegato alle condizioni di armistizio e che fra l’altro affermava testualmente quanto dico: “le Nazioni Unite dichiarano senza riserve che ovunque le forze italiane combatteranno i tedeschi o distruggeranno proprietà tedesche od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l’aiuto possibile delle forze delle Nazioni Unite; nel frattempo, se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nei limiti del possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche”.
Ma, nonostante queste belle parole, gli inglesi e gli americani si disinteressarono completamente della resistenza della Divisione Acqui e non fu inviato un solo aeroplano per contrastare gli Stukas che a 30, 40 per volta bombardavano dalla mattina alla notte non solo gli obiettivi militari ma anche quelli civili e non sono mai stati bombardati i convogli marittimi tedeschi che dalla Grecia portavano continuamente nelle isole uomini ed armi. Infine il governo Badoglio ritardando fino al 10 ottobre la dichiarazione di guerra alla Germania ha abbandonato i militari italiani che nel settembre combattevano contro i tedeschi lasciandoli praticamente in una posizione di irregolarità. Questo non giustifica la strage fatta dai tedeschi.
Permettetemi di esprimere stupore e dolore nell’avere appreso che due ministri della Repubblica italiana hanno negato per opportunità politica ad un procuratore militare di chiedere l’estradizione od almeno le complete generalità di trenta ufficiali tedeschi ritenuti responsabili degli “incidenti” – come li chiama uno dei due ministri – di Cefalonia e Corfù. E queste lettere sono state archiviate provvisoriamente – archiviate provvisoriamente – per oltre 50 anni nella Procura Generale Militare insieme a 695 fascicoli di crimini nazifascisti fra i quali 15 fucilati in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944.
Nel settembre ’43 ero capitano d’artiglieria comandante la 1° batteria del 33° Reggimento. Oggi novantenne insieme agli altri combattenti sopravvissuti dedico le mie residue energie per trasmettere alle nuove generazioni la cultura della pace, della giustizia, della solidarietà per auspicare la riforma democratica dell’organizzazione delle Nazioni Unite, in modo che abbia questa organizzazione la capacità di impedire la guerra, la fabbricazione ed il commercio delle armi da guerra e risolvere senza violenza, senza bombardamenti, col dialogo, diplomaticamente, le inevitabili crisi politiche, etniche, religiose, economiche e sociali che sorgono fra i popoli.
La Divisione Acqui ha iniziato la guerra di Liberazione, ma le Forze Armate hanno partecipato alla Resistenza oltre che in Grecia, anche in Albania, in Jugoslavia, in Francia, in Italia col Corpo Italiano di Liberazione, con i gruppi di combattimento, con i militati di professione e di leva, nelle file partigiane. La Resistenza è stata fatta anche dalle Brigate partigiane, ma non solo. Non è retorica affermare che la Resistenza è stata fatta da tutto il popolo italiano, dal nord al sud, come testimoniano le numerose ricompense al Valore Militare concesse ai civili, ai paesi, alle città, alle province, alle regioni, per consacrare l’eroismo delle popolazioni italiane, per consacrare la loro generosità e tenacia attorno ai combattenti, aiutandoli con abnegazione incitandoli, subendo le feroci rappresaglie del nemico con distruzioni, con deportazioni, con sanguinose repressioni.
Se facciamo una analisi storica del periodo fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si può affermare che per l’Italia è stato un secondo Risorgimento per la resistenza al nemico invasore, per la riconferma dell’unità della nazione, per la rifondazione della Patria, la premessa della Costituzione, e la premessa della democrazia.
30 Dicembre 2010 — aggiornato il 16 Giugno 2016