Marco Amendola anni 27
Credo che aderire all’ANPI, nell’immediato dopoguerra, per un antifascista, fosse una cosa quasi “ordinaria”, naturale, una logica conseguenza del proprio spirito e delle proprie scelte. Lo è ahimé molto meno adesso, nel 2007. Credo però che sostenere l’ANPI sia tuttora, per alcuni, una decisione “naturale”.
Non solo perché ho una tradizione familiare di partigiani; non solo perché nella mia famiglia ci sono stati morti e internati a causa del nazi-fascismo; non solo perché la lotta di Liberazione valorosamente condotta dal 1943 al 1945 è un evento da ricordare sempre; non solo per questi fattori mi sono iscritto all’ANPI.
Mi sono iscritto all’Associazione Nazionale Partigiani perché credo che di Partigiani ci sia ancora bisogno, anche adesso, anche nel 2007. La Resistenza non ha rappresentato per il popolo italiano soltanto una guerra contro gli invasori e una protesta armata contro il fascismo. La Resistenza è stata anche e soprattutto una meravigliosa dimostrazione di altruismo. Perché i Partigiani non combattevano per se stessi, non combattevano soltanto per liberare la loro casa, il loro quartiere, la loro città, non combattevano solamente per i diritti delle loro famiglie e dei loro amici. I Partigiani hanno combattuto per le libertà di tutti, per rinnovare e difendere le garanzie fondamentali sulla dignità, sul pensiero e sulla parola, sull’opinione, che ogni popolo, ogni singola persona ha il sacrosanto diritto di vedere rispettate.
La libertà, le libertà, per un ragazzo che come me è nato negli anni ’80, sono un fatto acquisito, inalienabile, inattaccabile. Purtroppo non sempre è così, e la Storia ci insegna che è un dovere non abbassare mai la guardia: per la libertà e per la giustizia bisogna e bisognerà combattere sempre. Speriamo senza mai più armi, ma con proteste pacifiche, civili, intense. Per questo mi sono iscritto all’ANPI. Perché non si finirà mai di lottare. E l’esempio dei Partigiani, nella lotta per le libertà, è proprio un bell’esempio.
Rina Pioli anni 80
Sono andata a scuola durante la dittatura fascista e non mi è dispiaciuto trovarmi con tante bambine in una classe puramente al femminile. Trovarsi con tante coetanee fu una felice esperienza. Io in casa ero la sola piccola. Mi mancava il vero trastullo nel gioco perché non avevo riferimenti e confronti con un altro della mia età. Ero troppo protetta nel senso che ero al centro dell’attenzione. Avevo sempre ragione. Ero “piccola”. Ma io amavo il rischio anche nella più innocente competizione, ma non c’era con chi confrontarmi. Mentre a scuola vivevo in una società, nella mia “società”.
Non ero eccessivamente studiosa, ma sapevo applicarmi, mi piaceva scoprire la lettura avventurosa e mi immedesimavo nei personaggi che leggevo. Diventavo la protagonista di “tutto”. Il libro “Cuore” lo tenevo sotto il cuscino sul quale dormivo. Siamo sinceri, non è che fossimo spronati alla lettura. Imparai che vi era una piccola bibliotechina alla fine della 5° elementare. Certo alle medie la cosa cambiò. La biblioteca c’era ma la scelta di cosa leggere non era facile, perché il regime fascista aveva rifornito con libri tutti inneggianti al regime, come “Libro e moschetto”, cultura fascista, ecc., i quali godevano di un forte incoraggiamento a tale lettura per noi giovanissimi studenti. Poi c’era Liala, Luciana Peverelli a sfondo tutto rosa, oppure Carolina Invernizio, ma non mi sentivo attratta a questo genere.
Nella centralissima libreria Taddei (Ferrara) trovai un genere nuovo: Emilio Salgari! Quanta passione, sognavo di essere la Tigre di Monpracem.
Come dicevo non ci fu mai un indirizzo, una guida nella lettura fuori dai testi del programma scolastico, perché tanto “le donne avevano ben altro da fare nella loro vita ….casalinga!” Questo correva nella mentalità del regime per le donne di domani.
Poi mi appassionai all’atletica leggera. Correvo forte, ero tutta muscoli, ma ecco l’impatto infelice: bisognava andare agli allenamenti in divisa di “giovane italiana”. Ma io la divisa non l’avevo. E sapevo bene il perché. Ero figlia di genitori poveri ed antifascisti! Era un lusso che nemmeno i miei zii adottivi sentivano il bisogno di avere “una bardata da giovane fascista in famiglia”.
L’antifascismo mi affascinava di più. Trovavo i fascisti vestiti in modo tetro, funereo e con emblemi rappresentati dalla morte con teschio e ossa incrociati, nei vestiti e anche nei vestiti neri, e un buffo berrettino tutto nero con una vistosa frangia traballante ad ogni movimento della testa, da sembrare quella di un burattino. Mentre il papà, in modo molto sommesso, mi cantava e suonava con l’armonica a bocca “bandiera rossa” e la mazurca di Migliavacca, tuttora di moda.
Altro motivo per elogiare l’antifascismo di papà era il 1° maggio, con un bel fiore rosso all’occhiello, che bel colore, gioioso e scintillante! Ma purtroppo costarono caro a papà queste esternazioni! Generalmente all’avvicinarsi del 1° maggio –festa del lavoro- lo avvertivamo che se metteva un segno di festa proprio quel giorno per lui c’era la prigione. Ma che roba! Papà in prigione! E la mamma col fazzoletto nero in testa calato fin sugli occhi non voleva piangere davanti a noi. Passata la bufera, l’equilibrio ritornava e io saltavo sulle ginocchia di papà che mi buttava in aria dalla contentezza. Sì perché papà era un uomo forte e bello!
La mia scelta fu chiara: papà aveva ragione, il canto e la musica erano più belli, così scelsi la strada dei miei genitori. Altro che cultura fascista!